Articoli di Giovanni Papini

1927


La Croce


Pubblicato su: La Festa, anno V, fasc. 52, pp. 34-36
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Data: 25 dicembre 1927 - 1 gennaio 1928



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   Di faccia a casa mia c'è una croce. Una croce nera di legno piantata in cima allo scoglio. Non grande: appena un ragazzo vi potrebbe esser crocifisso. Non ricca, non bella, non paurosa. Squadrata da un contadino con l'accetta. rattoppata con pezzi di bandone, scortecciata dall'acque.
   Intorno, nel sodo, i fiori non seminati l'odorano nelle stagioni feconde; vi salgono le pavoline, vi prendono il sole le lucertole, le farfalle vi si accoppiano. Le formiche hanno fatto del basamento un granaio; per i serpi è una terrazza; per gli innamorati della domenica un ritrovo onesto; per la Madonna di maggio e per la Madonna di settembre tutto il popolo viene quassù con i preti vestiti di seta bianca, gli uomini della compagnia con le mantelline vinate, le ragazze col velo bianco e tutti si inginocchiano e il sole di primavera e di autunno fa da raggiera al Santissimo.

   Da tre anni uomini e donne si chiedono per quale ragione son tornato ad inginocchiarmi, per quali strade ho riconosciuto il cammino che conduce ai Monti delle Beatitudini e del Sangue di Cristo. Posso rispondere che una delle ragioni è questa croce di legno? Chi mai vorrebbe capire? Due pezzi di legno imbullettati e incatramati sono forse una ragione, un argomento, una apologia?
   Quando venni la prima volta quassù c'era la croce: la prima cosa che vidi arrivando, dopo una salita nella nebbia piovorna d'aprile. Sul primo non ci badai: emblema dì una fede contadina, che ormai si rifugiava sulle alture, tra i medievali sopravissuti. Ma presto fu mia: li sotto era bello il vedere, bello il posare. Sull'erba, le spalle appoggiate allo scoglio, accanto a due sterpi di carpino, tra i cardi (fiori duri, tutti sostanza e confacenti alla mia natura) era dolce veder passare il tempo, soffermarsi il fiume, disfarsi le nuvole.

   Tutta la valle, da quella punta protesa, era mia. Le montagne mi salvavano a levante dall'Adriatico, a tramontana dalla Romagna, a mezzogiorno dall'Umbria. Camminando un po' alla mia sinistra avrei bevuto alla prima polla del Tevere e mi sarei trovato nei pressi dei tre poggi repubblicani; camminando dinanzi a me avrei avvistati i barconi che portano il sole pitturato sulla vela per i giorni di buriana; viaggiando a destra avrei rifatto il cammino di S. Francesco quando mosse alla Verno per tornare alla patria e alla tomba. Ma tutte queste tentazioni non mi tentavano; appollaiato su quel sasso toscano, in questo estremo biscanto della mia terra, mi rassegnavo alla meditazione, combattevo con le mie voglie, mi rifornivo d'aria corrente. Quante ore della mia vita ho passato all'ombra della mia croce! Di lassù ho visto la terra in tutti i suoi costumi: certi giorni le montagne sparivano, un vapore d'umido silenzio colmava la valle, una muraglia di nebbia nera chiudeva ogni passo: rimanevo solo con la croce, io solo nel mondo, come l'ultimo uomo scampato a un nuovo diluvio avviticchiato all'albero nero, sull'ultimo scoglio emerso dal nulla: solo sopra un infinito mare di fumo e di cenere, a tu per tu col Crocifisso.

   In altri giorni tutto il mondo era bianco, cielo e terra. Poggi di sale brillante sopra un cielo piombagginoso. I tronchi spogliati delle macchie, ignudi, maligni,


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neri, come forche abbandonate da incendiari disertori. Il sole, piatto di stagno appannato, imitava la pallida etisia della luna.
   Poi arrivavano i giorni dell'insurrezione e della libidine.
   Il sole mangiava la neve per ristorare i campi bruciati dalla ghiacciaia, i fossi correvano e cantavano come giovani liberati, ogni proda voleva la sua erba, ogni solco i suoi fili di grano, ogni boccon di terra il suo fiore. Gli alberi, che parevan chiusi nella vecchiaia della corteccia, mettevan fuori tante bolle d'una felice eruzione e le gemme scoppiavano tutte le mattine, le foglioline pelose allargavano i ciuffi, si stendevano all'aria, verdeggiavano al sole. Gli uccelli le adocchiavano da lontano e, come i poeti, lodavano l'opera altrui.
   Le pecore annerite dall'invernata figliavano agnelli che sul primo non si reggevano da sè ed in pochi giorni correvano belando nelle pasture; le fratte si imbiancavano di spinabello; il Tevere si stendeva al sole sui sassi e nel casto circo dei monti ricominciava l'eterna pastorale della primavera: corta commedia che odorava di violette e di concio.

   Allora eran belli i campi a guardarsi: chiusi nelle siepi, protetti dai pastori, insanguinati dai papaveri, ondeggiati dal vento, sembravano geometrie di verde fradicio fra muriccioli di pruni. L'intenzione degli uomini era stata geometrica, ma presso alle losanghe ed ai rettangoli quasi perfetti si vedevano quadrilateri con siepi a golfi e gobbe, e strisce che non riuscivano a ricongiungersi nella punta di un triangolo.
   Le strade e i sentieri affogati dai nevai ricominciavano cautamente a scendere e a salire; ad un tratto si nascondevano in un bosco giovane, si appiattavano nelle ripiegature della terra, ma poi tornavano a splender di sassi sulla cima: trionfo dell'uomo ostinato sul disordine della natura. Eppure anche le strade, un giorno, dettero foglie alle capre, pane al mezzadro, fiori alla Chiesa: i nostri passi l'hanno condannate alla sterilità dei botri, al fangume sassoso delle carraie. Ma chi possiede un cuore capace di compatire la terra sacrificata?

   E passavano le settimane delle nozze annuali del cielo e della terra; il cielo compiaceva a tutti i desideri la campagna, e la campagna si copriva delle sue vesti più sfoggiate per piacere allo sguardo del cielo. Anche gli alberi più poveri offrivano infiorescenze bianche e rosate alla brezza; anche dai sassi delle muriccie scappavano bocci di rose; i fiori del giaggiolo imitavano l'ametiste, e le camomille aprivano occhi dì zolfo in mezzo a petali di latte.

   Ma via via che il sole pigliava forza e si inebriava del suo calore orgoglioso, i campi eran costretti a riflettere il tuo colore, a diventar bianchi, biondi, dorati come lui. Qualche pezzatura di saggina o di formentone resisteva; le ciliege aspettavan la sete, i grani la falce. Cominciando dal fiume le compagnie degli scamiciati salivano armate di ferro; ogni tanto si stendevano all'ombre, ogni moto gridavano e via via la terra ritrovava la sua sincera nudità di stoppia pietrosa. La festa era finita, le vacche erano aggiogate alle treggie; l'aria era ferma nell'affocato stupore delle giornate senza fine e senza notte; ì ragazzi guadavano il Tevere senza bagnarsi; la prima cicala si stancava di cantar sola, la ghiandaia schiamazzava, ed era giunto alla fine il paradiso dei ramarri. la cuccagna dell'api.

   Ma più bello sembrava ai miei affaticati occhi l'universo, quando a settentrione salivano a branchi le nuvole mortuarie, annunziate dai tamburi del tuono, frustate dai lampeggiamenti, perseguitate dal vento. L'acqua, come una colonna brumosa, le seguiva. Veniva da lontano, fuggendo e battendo tra nembi carbonosi fulminati di rosso. La terra riarsa la chiamava, ogni foglia si stendeva per raccoglierla, i solchi vuoti l'aspettavano, le macchie mareggiavano a stormo, con muggiti di desiderio.

   Allegrezza di rospi, trionfi di raganelle, resurrezione di piante e di vene! Scroscia e romba il cielo in aspetto di gastigo, e quel gastigo è un premio, una voluttà, una salvezza. Quando il sole tornava tra le nuvole rotte, con spade oblique di raggi tra le bianche radure dell'aerea retroguardia, non riconosceva il suo regno. La terra, come in bel corpo uscito dal lavacro, splendeva d'un polverio di zaffiri e pochi giorni bastavano per darle la consolazione d'una seconda primavera.


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   Poi veniva, colla sua bigia e pigra pesantezza, l'ottobre. Fumavano i campi nell'albe di guazza, fumavano le case prima di mezzogiorno, fumavano i fuochi dei carbonai, fumavano sui poggi gli stracci delle brumaie lacerate. S'ammontavano le nuvole sulle montagne come a umiliarle. Ma i monti non sentono il peso; le nuvole non riescono a stancarli, ad abbassarli. Ma premono il cuore dell'uomo che guarda: ripensa alle primavere e all'estati dei suoi anni; sente approssimarsi il fango del novembre, la neve del dicembre, la fine delle stagioni e delle speranze. Il cielo screpolato, livido, marcio, par che s'abbassi stanco sulla terra stanca, che si nasconde sotto le foglie morte, sotto l'erbe esanimi, sotto i fiori estremi.

   Allora si scoprono le case: cubi di calce coperti di pietra buia, abituati alle settimane di piova, al fumo dei forni, alle monotone furie notturne dei venti. Già dalla strada maestra sale fino alla Croce, chiaro nel primo freddo, lo scalpitio della cavalla che torna dal paese e la stracca ottava del barrocciaio che addolcisce la calata del sole nel grigiore ferroso dell'occidente.

   Vado anche oggi alla Croce per riconoscere il mondo. Un costone tra due clivi — duecento passi — mi porta come un ponte sul crinale dei precipizi.
   Non vorrei nominarti invano, Tu che sorridesti a questa patria di serpi e l'accarezzasti con la tua mano ancor luminosa di stelle e di lune. Ma forse ti sei riconciliato, stamane, con la discendenza del mangiatore di pomi e la terra è tornata giardino. Una giornata come questa aggiunge alla perfezione dell'universo. Tutto sembra rifabbricato e lavato dalla tua mano. Dal giorno della mia prima nascita non ho sentito il cuore così leggero, l'anima così tranquilla, gli occhi così riposati. L'erba giovane, i fiori bambini, il fiume purificato, le piante rinovellate stanno sulla palma del lungo paese come regali sopra un altare. 1l cielo ha odore di gioventù; le tombe del camposanto sembrano candidi fiori posati in un prato chiuso; le vaste nuvole bianche sembrano mantili d'angioli; il mio cuore batte come un'ala di colombo.
   Vengano in questo momento i miei nemici; il sole benedirà coll'oro il nostro bacio. Ogni creatura si inginocchia perchè le gambe tremano e non reggono più. Ed io sento nel mio petto tutte le creature; quelle che vidi una volta, quelle che mi hanno guardato stamani, quelle che non ho vedute nè vedrò mai.

   La bellezza stessa non è pace? Dopo che tutto è messo in bilancio, l'amore non è la mercatura più redditizia?
   Che vuoi dire se non mi ami e non vuoi amarmi? Ma intanto sulla tua faccia splende la stessa luce che m'illumina; il calore che sento attraverso i panni sulla mia spalla è quello che intiepidisce la tua mano, e uno stesso padre segue con eguale trepidazione i nostri passi attraverso la selva.
   Per il solo fatto the tu vivi, sia pure per rinnegarmi, sei un elemento della mia vita, metti a prova la mia forza, fornisci un po' di gioia a quest'anima disseccata; io ti ringrazio e t'abbraccio. Vorrei pagarti il bene che mi fai; prendere un po' del tuo male, insaccarlo insieme al mio e mettere ai tuoi piedi la mia ubbidienza commossa.

   Come cristiano non ho forse diritto all'infelicità? Nessuno può togliermela. Ma tu puoi accrescerla, puoi lavorare per accrescerla; in che modo mostrarti la mia gratitudine se non chiedendoti in elemosina un po' della tua?
   Se non ami sei un infelice. Se non vedi la soprannaturale bellezza della natura sei infelice. Se non sai disprezzarti sei in felice. Se non possiedi che te stesso sei infelice. Non ti vergognare della mia compassione. La terrò nascosta, ti farò la carità quando non vedi. La sera, tornando, sentirai una contentezza di più e dirai: Ho fatto quel che dice la legge, ho battuto un colpevole, ho portato un sasso alla casa comune.
   E non saprai che quella contentezza la devi alla mia segreta preghiera. Non penserai che la pago io, con peccati di orgoglio e di presunzione e che nonostante rimango tuo debitore perchè il bene che ti voglio arricchisce la mia miseria.

   Io sono la proprietà di tutti gli uomini. Mi hanno comprato accettandomi. Ma tutti quanti gli uomini son mia proprietà. Io ne dispongo come d'un infinito deposito d'amore nei giorni di pace totale. Come in questo giorno di settembre che l'aria felice mi avvolge in un bagno di fuoco e di gioia.


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